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Nota della redazione: proponiamo qui di seguito i passaggi più
significativi dell'intervento degli storici Andrea D'Aronco
e Fabio Verardo, autori del libro "L'eccidio delle
carceri di Udine del 9 aprile 1945" - ed. KappaVu. |
Questa ricerca
trae origine dal rinvenimento della consistente documentazione
archivistica conservata ai National Archives of United Kingdom.
In particolare il fascicolo dell'inchiesta per i crimini di guerra
della 69th Special Investigation Section ha recato elementi inediti
per ricostruire in modo analitico le dinamiche, le cause, i ruoli
e le responsabilità dell'eccidio al carcere di Udine del
9 aprile 1945. Un eccidio che rappresenta uno degli avvenimenti
più tragici della Resistenza friulana. Una tragicità
che deriva dal numero delle vittime (29 partigiani e un agente
di polizia), fucilate dopo essere state condannate a morte in
un processo farsa svoltosi nel mese di marzo 1945, ma che deriva
anche dal fatto che le esecuzioni avvengono negli ultimi giorni
di guerra quando i nazisti, che avevano occupato la Regione dopo
8 settembre del 1943, sapevano già quale sarebbe stato
l'esito della guerra e sapevano già che le esecuzioni
non sarebbero servite a perseguire gli obiettivi della lotta
antipartigiana.
L'eccidio è, dal punto di vista storico, abbastanza conosciuto
perché si consuma in una città, Udine, e all'interno
di una struttura dello stato, le carceri giudiziarie di Via Spalato.
È un eccidio che vede fra le vittime alcune figure di
spicco della resistenza friulani quali Mario Modotti "Tribuno"
e Mario Foschiani "Guerra".
E' un eccidio problematico perché, dopo l'arresto e il
processo, passano 25 lunghi giorni prima che la sentenza sia
eseguita. In questi 25 giorni accadono molte cose.
Questa strage non ha l'aspetto della rappresaglia perché
l'esecuzione si svolge di nascosto e perché i corpi furono
nascosti e non si capisce il motivo dell'esecuzione.
Se riprendiamo in mano le fonti, la bibliografia, i documenti
dell'Istituto Friulano del Movimento di Liberazione (IFSML),
dei processi ai collaborazionisti del dopoguerra e i documenti
trovati in Inghilterra, troviamo preziose informazioni sui prodromi
della strage, su come i partigiani erano finiti in carcere, su
chi li aveva denunciati e sui nomi degli esecutori materiali
e dei mandanti.
Si sono rivelati particolarmente utili i documenti prodotti durante
l'amministrazione civile alleata della provincia di Udine e,
fra questi, un fascicolo sull'eccidio del 9 aprile prodotto dalla
69sima sezione della Sezione Investigazioni Speciali della polizia
inglese.
Importante è il ruolo ricoperto da due personaggi: Michele
D'Urso, direttore delle carceri giudiziarie di Udine e da Hans
Kitzmüller (un interprete) che saranno interrogati per arrivare
all'accertamento dei fatti relativi a un eccidio ritenuto un
crimine di guerra.
Gli
alleati portarono avanti una sistematica ricerca utilizzando
forze specializzate di polizia per ricostruire tutte le responsabilità
degli ufficiali dell'intelligence antipartigiana da portare davanti
a un tribunale. Nei documenti degli alleati si trovano anche
documenti tedeschi con gli ordini di carcerazione dei partigiani.
I partigiani fucilati sono catturati nel periodo che intercorre
fra il dicembre del 1944 e i primi di marzo del 1945. Provengono
da quasi tutti i luoghi del Friuli in cui si svolge la lotta
partigiana. C'è anche una rete di collaborazionisti molto
estesa, specie nella Bassa, che ne permette la cattura, molti
di questi partigiani passano per la caserma di Palmanova e, dopo
aver subito numerose torture sono portati a Udine. Altri sono
presi armi in pugno in Carnia, altri sono catturati dai cosacchi,
altri sono catturati in azioni o sul confine del Friuli orientale
.
Udine è il centro di una rete informativa molto estesa
che fa capo al comando delle SS e SD (Sicherheitsdienst, Servizio
di Sicurezza - servizio informazioni e intelligence delle SS
al 1932 al 1945 - considerato a Norimberga come organizzazione
criminale) e la SIPo (Sicherheitspolizei, Polizia di Sicurezza
- la direzione delle due forze di polizia che si occupavano specificatamente
della sicurezza del Reich sotto il profilo politico e criminale).
SD e SIPo avevano un unico comandante, non erano milizie combattenti
come le waffenSS e facevano parte di una sorta di ramo civile
militarizzato di ex poliziotti o appartenenti a vari rami della
polizia tedesca e austriaca distintisi nelle retrovie del fronte
orientale in funzone antipartigiana.
Questi comandi decidono come procedere con i partigiani: se processarli,
se deportarli, se trattenerli, ...
Il processo che porterà all'eccidio del 9 aprile 1945
e la custodia prolungata che incorre fra sentenza ed esecuzione
capitale è funzionale alla repressione: si possono ottenere
altre informazioni, si può mettere in crisi chi è
rimasto fuori, si possono creare ulteriori tensioni fra le varie
anime della Resistenza,
Il processo è una farsa fino a un certo punto perché,
da un lato vuole reprimere il movimento partigiano, dall'altro
vuole dimostrare alla popolazione che i tedeschi sono spietati,
ma agiscono all'interno di alcune regole.
Non conta che il tribunale sia illegittimo, che non ci sia il
diritto di difesa, che il processo duri un giorno, che l'imputato
debba difendersi con l'utilizzo di un interprete, che non si
sa se il tribunale è civile o militare,
Ma c'è la ritualità del processo e c'è una
sentenza che deve essere eseguita. C'è una procedura da
portare a termine che sia funzionale alla repressione e che determini
tensioni anche nel movimento partigiano. Ci sono 29 vittime,
ma i partigiani processati sono 40, di questi 37 sono condannati
alla pena di morte e per 3 il procedimento è rinviato.
Perché poi solo a 29 condannati verrà applicata
la condanna a morte?
L'arcivescovo di Udine intercede presso il Gauleiter Friedrich
Reiner a Trieste per la grazia riuscendo ad ottenere che i condannati
a morte passassero da 37 a 29. Nei 25 giorni che intercorrono
fra la lettura della sentenza e l'esecuzione si gioca molto su
chi riceverà la grazia e chi no.
A complicare le cose interviene l'arresto il 13 marzo 1945 a
Moruzzo lo Stato Maggiore dell'Osoppo che viene portato in carcere
senza che i componenti siano riconosciuti. Saranno liberati assieme
ad alcuni garibaldini il 25 marzo e nei giorni successivi, con
uno stratagemma di don Emilio De Roja (certificati di scarcerazioni
falsificati su originali usati forniti da Hans Kitzmüller).
I tedeschi se ne accorgeranno quando troveranno scarcerato uno
che doveva essere interrogato: arresteranno il direttore delle
carceri, il capoguardia, la spia Ziroglia, le guardie e i tedeschi
di guardia alle porte.
In gran parte i condannati sono garibaldini (27 su 29) e i graziati
sono tutti osovani. Questo crea una frattura all'interno della
Resistenza e probabilmente anche dentro i garibaldini.
Probabilmente la differenziazione fra garibaldini e osovani era
cominciata già a marzo 1945 quando, chi dirige il carcere,
discrimina i due gruppi all'insegna del "divide et impera",
ma le frizioni nella Resistenza sono comprese dai nazisti già
dall'estate del 1944. L'eccidio potrebbe essere stato un segnale
del tipo: "Qui comandiamo ancora noi" ed è stato
usato per terrorizzare il movimento partigiano e la popolazione,
in un momento in cui la Resistenza si sta rafforzando. Ma il
diverso treattamento fra partigiani, può essere stato
utile a non chiudere tutte le porte alla fuga.
Perché chiedere ai condannati a morte pochi giorni dopo
la sentenza se uno è garibaldino o osovano? Questo ha
senso per chi sta in carcere e aspetta che ogni mattina arrivi
un camion a portarli via. I partigiani comunicano con l'esterno
e le lettere dal carcere vanno fuori ed entrano. I 25 giorni
esasperano i condannati a morte che aspettano una grazia o una
azione partigiana come quella del 19 febbraio 1945 che li liberi
o l'arrivo dei alleati o la complicità di qualcuno dall'interno
del carcere che capisca che il tempi stanno cambiando.
(...)
L'esecuzione avviene in forma "riservata" all'interno
del carcere senza un plotone di esecuzione, ma con l'uso di un
mitragliatore. I condannati sono uccisi in tre scaglioni e sono
coperti da una specie di steccato a negarne la vista anche agli
altri detenuti. I cosacchi ripuliscono l'area dell'esecuzione
e mettono il gesso sui muri a coprire i buchi delle pallottole.
Un camion porta quindi i cadaveri dei condannati al cimitero
di San Vito a Udine per una veloce sepoltura.
Il custode del cimitero prende un po' di tempo per identificare
i morti e fotografare quelli che non riconosce e aspetta un po'
che arrivino i parenti.
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