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ANPI
Cividale del Friuli

Commemorazione dei
"Martiri della Libertà"

18 dicembre 2022

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Sezione di Cividale del Friuli
Città decorata con Medaglia d’Argento al V.M. per i fatti della Resistenza


Ringrazio il Comune di Cividale, il sindaco e l’ANPI per avermi invitato a questa importante commemorazione.

Ripercorrendo la storia di quanto successo a Cividale e nel territorio vicino, durante il periodo più duro della guerra, dall’armistizio del 8 settembre 1943 con l’occupazione nazista del territorio e l’annessione all’Adriatisches Künstenland, alla Liberazione del maggio 1945, il sentimento che ho provato è di profonda commozione e sconcerto. Oggi ricordiamo l’uccisione di 8 partigiani, italiani e sloveni, fucilati il 18 dicembre 1944, che, insieme ai 6 di Gemona, morirono per una rappresaglia nazifascista causata dalla morte di 8 militari del Quinto reggimento Milizia Difesa territoriale.
Sappiamo che i corpi degli 8 partigiani furono esposti alla cittadinanza: essi dovevano servire per impressionare e terrorizzare la popolazione, che, nonostante la repressione, continuava a sostenere i “banditi”, così venivano chiamati i ribelli che si opponevano all’occupazione nazista del territorio.
L’esposizione dei corpi in funzione di monito aveva un preciso obbiettivo: generare paura. A Milano, a Piazzale Loreto, il 10 agosto 1944 furono uccisi 15 partigiani e i corpi esposti alla gente che passava nel caldo torrido di quei giorni estivi.
Vicino a noi ci fu l’eccidio di via Ghega. Il 23 aprile 1944 i nazisti, per rispondere ad un attentato alla mensa della Casa del soldato dove erano morti 4 militari tedeschi, prelevarono dal carcere del Coroneo di Trieste 51 prigionieri e li impiccarono alle balaustre della scalinata del palazzo Rittmeyer, oggi sede del Conservatorio Tartini, lasciando i corpi appesi per cinque giorni.
L’esposizione dei cadaveri doveva avere un effetto deterrente sulla gente stremata dal conflitto ed era una misura estrema, adottata perché la repressione, il carcere e la tortura non bastavano. Non bastava l’Ispettorato Speciale di PS con le sue sedi dislocate nei commissariati del territorio occupato e con le sue Ville Tristi, non bastava la Caserma Piave di Palamanova dove i partigiani e le donne catturate, come Giovanna Iurissevich, “Fiumana” , Silvio Marcuzzi “Montes”, comandante della Intendenza più grande d’Italia e centinaia di altri combattenti venivano torturati, uccisi e gettati nei fossi. A Pordenone Terzo Drusin, il partigiano “Alberto” di Manzano venne torturato e costretto a girare nei paesi dalla brigata nera di Angelo Leschiutta, picchiato con il calcio dei fucili, spinto a forza nelle osterie per denunciare i collaboratori, e poi gettato nel fiume Livenza ; non bastò la Risiera di San Sabba e i suoi oltre 3000 morti, partigiani e antifascisti italiani e sloveni, oltre a 50 ebrei, per spegnere la lotta.
A Cividale non fu sufficiente quanto accadde alla Caserma Principe Umberto in cui era insediato il Comando tedesco. Qui nel camps des verzis furono uccise oltre 100 persone dopo averle costrette a scavarsi una fossa. Erano partigiani, antifascisti, militari, spesso denunciati da collaborazionisti del luogo e di cui ancora oggi di tutti non si conosce l’identità.
Il massacro di Cividale è ricordato come le Fosse del Natisone e venne perpetrato di nascosto, i corpi seppelliti nelle fosse comuni come successe a Roma, alle Fosse Ardeatine il 24 marzo 1944 quando furono uccise 335 persone per rappresaglia per l’attentato di via Rasella e occultati in quelle cave. Corpi nascosti o corpi esposti per vendetta e desiderio di creare terrore.

Laddove la lotta fu più intensa maggiore fu la repressione, secondo i metodi che i Tedeschi usarono in Polonia agli ordini di Odilo Globocnik, mandato poi alla Risiera perché forte di quell’esperienza di massacri.
Non furono le città la maggiore preoccupazione dei nazisti. In città c’erano le truppe di occupazione, le strutture militari e di controllo. Era nei luoghi più piccoli, come Cividale, crocevia delle vie di comunicazione e dei trasporti, circondati da alture e da boschi che i tedeschi commisero le peggiori atrocità.
E non vi è dubbio che Cividale e l’intero territorio oppose una dura Resistenza ai nazifascisti, testimoniata dall’alto numero delle vittime complessive e dei deportati nei lager di sterminio.
Come ricorda lo storico Angelo Ventrone “La consapevolezza dell’aumento numerico e delle crescenti capacità offensive e di coordinamento dei partigiani portò i tedeschi a ricorrere a mezzi sempre più brutali di repressione. In aprile furono diramate queste direttive: «Contro le bande si agirà con azioni pianificate ... In caso di attacco, aprire immediatamente il fuoco, senza curarsi di eventuali passanti ... Data la situazione attuale, un intervento troppo deciso non sarà mai causa di punizione». Altre disposizioni incitavano a usare la «massima asprezza» in caso di attacchi, ad arrestare tutti i civili che si trovavano nei pressi e persino a incendiare le case dei responsabili. Analoghe indicazioni erano date alle formazioni fasciste che dovevano «perseguitare il nemico finché è morto» e «agire con la massima durezza tanto contro i banditi quanto contro coloro che li aiutano. Lo stesso Mussolini aveva invitato a passare «immediatamente per le armi» i partigiani catturati nei combattimenti e gli sbandati trovati con le armi in pugno; quelli non armati, invece, dovevano essere inviati in Germania.

Alla base della scelta resistenziale, ci furono motivazioni molto differenziate: i partigiani avevano diverse idee politiche, molti le idee le maturarono nella lotta. Per molte donne, contò l’avversione verso il fascismo, un regime che aveva ostacolato la loro emancipazione. All’attività delle bande partigiane parteciparono anche gruppi di ex-prigionieri alleati, resistenti jugoslavi, soldati cechi e sovietici, e persino un certo numero di disertori tedeschi, a dimostrazione di quanto la lotta ebbe caratteri sovranazionali, come era successo nella guerra di Spagna e come successe nella Resistenza in Francia.
Leggendo i nomi dei caduti di Cividale vediamo che nella stragrande maggioranza dei casi si trattava di operai, contadini, calzolai, artigiani, gente del popolo che non ne poteva più dei soprusi e della violenza dei fascisti. Violenza che si era manifestata precocemente sin dalla fine della prima guerra mondiale nel tentativo di ristabilire un comando rigido nelle fabbriche, dove le paghe vennero diminuite e gli operai che manifestavano furono licenziati e costretti ad emigrare. A Cividale furono condannati e processati coloro che avevano organizzato nel 1932 gli scioperi all’Itacementi, 32 lavoratori di cui uno si suicidò non sopportando le violenze subite negli interrogatori e un altro operaio morì misteriosamente in carcere. Il fascismo era insopportabile per gli sloveni per il divieto di parlare la lingua e la chiusura di scuole e associazioni culturali. Contro gli sloveni e i croati si scatenò un feroce fascismo razzista che considerava gli “S’ciavi” sotto uomini, di cultura inferire, di costumi barbari e primitivi, ma razzismo si manifestò anche con le leggi razziali contro gli ebrei e nella guerra coloniale per la conquista dell’Impero. Anche qui ci fu chi, come Ilio Barontini, combattè a fianco dei partigiani etiopi. Non possiamo dimenticare l’occupazione della Jugoslavia, la creazione di campi di detenzione a Rab /Arbe, dove furono reclusi civili, donne, vecchi e bambini, e quelli italiani di Gonars, Visco, Fossoli, Sdraussina, dove fu rinchiusa Ljubka Šciorli, moglie di Lojze Bratuž, maestro di coro cattolico, ucciso a Gorizia nel 1937, perchè costretto ad ingerire olio di ricino mescolato con pezzi di vetro.

Questo è il contesto in cui erano vissuti coloro che dopo l’8 settembre decisero di mettersi in gioco contro il nazifascismo. Lo fecero comprendendo che i loro compagni erano proprio coloro che erano disprezzati dal fascismo. Ricordiamo che già nel 1942 Mario Fantini “Sasso”, comandante della Divisione Garibaldi Natisone, la più grande formazione partigiana italiana con oltre 5000 combattenti e il cognato Mario Modotti “Tribuno” comandante della Brigata unificata Ippolito Nievo A si incontrarono con Rodolfo Terpin a Vipolže (Vipulzano) per prendere contatti con la Resistenza slovena. Ce lo racconta Jadran Terpin, fratello di Stojan, 19 anni, uno degli 8 fucilati di Cividale. Sasso e Tribuno iniziarono a collaborare con gli sloveni con il Soccorso Rosso, portando vestiti, sigarette e medicinali per le famiglie degli antifascisti dai paesi della cosiddetta “Bisiacheria”. Non sapevano una parola di sloveno, non erano iscritti al partito comunista, ma erano due persone simpatiche, come riferisce Jadran. Sappiamo quale fu la durezza della lotta, in cui combattè Sasso: i rastrellamenti tedeschi sul Collio, l’osteria di Petenel data alla fiamme nel maggio del 1944, i paesi incendiati, la deportazione, la fine della zona libera del Friuli Orientale nell’estate del 1944, l’arrivo dei cosacchi e il loro insediamento in Carnia e a Cividale e le violenze contro le donne di cui questo combattenti si resero responsabili.

C’è un’idea che è molto utile oggi: quella di memoria attiva. La memoria attiva non è la semplice celebrazione di uomini e donne e di periodi che ormai con il presente non c’entrano nulla. Memoria attiva vuol dire riflessione sul passato, confronto per verificare quanto oggi del passato rimane attuale e quanto è irrimediabilmente da consegnare alla storia. L’insegnamento più grande che ci rimane della lotta partigiana e del sacrificio dei ragazzi e delle ragazze che vi parteciparono è il grande coraggio, la consapevolezza che ci si libera da soli se si vuole conquistare davvero la libertà. Questi ragazzi e ragazze avrebbero potuto stare a casa, far parte di quella grande fascia grigia che non prendeva posizione, che non si schierava per amor di quieto vivere o perché, come si dice, teneva famiglia. Avrebbero potuto aspettare l’arrivo degli Alleati, senza far nulla, cercando di barcamenarsi sino alla fine della guerra. Ma il peso della mancanza di libertà, del razzismo, della impossibilità di esprimere le proprie idee senza finire in carcere, il rifiuto della discriminazione, della retorica del regime, della miseria li avevano messi in marcia.
Un altro insegnamento ci viene da quella lotta: il crollo dello Stato dopo l’8 settembre, la fuga del re e l’abbandono dei militari senza ordini e protezioni, aveva messo in gravissima crisi il concetto di patria. Lo stato come tutore degli interessi generali aveva perso la sua credibilità. I partigiani con la loro lotta portarono ad un’altra e più adeguata concezione della nazione, conferirono con la loro lotta, onore alla patria, non certo lo fecero i militi di Mussolini, subordinati ai Tedeschi. Grazie alla Resistenza nacque la Costituzione che diede una diversa visione dello Stato e dei diritti dei cittadini. Ripudio della guerra, uguaglianza sociale, libertà di espressione, funzione sociale dell’impresa furono i cardini di una più avanzata vita civile, che noi abbiamo ereditato e con la stessa determinazione e lo stesso coraggio dobbiamo difendere.

 

Anna Di Gianantonio

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