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ANPI
Cividale del Friuli

commemorazione dei partigiani fuciliati
al campo sportivo e delle 105 vittime
alle "Fosse del Natisone"

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Considero preziosa l'opportunità che l'Anpi di Cividale, in accordo con il Sindaco di questa cittadina, ha deciso di offrirmi, invitandomi a tenere l'orazione ufficiale in occasione della commemorazione odierna; ringraziando gli estensori dell'invito per l'attenzione che hanno dimostrato nei miei confronti, intendo chiarire subito la mia volontà di non limitarmi a ricordare le tragedie che commemoriamo: esse, infatti, oltre a imporci di tenere vivo il ricordo, ci sollecitano a riflettere sul significato degli avvenimenti in cui s'inserirono. Memoria e riflessione, pertanto: due esigenze che vorrei congiungere in un intervento pensato innanzitutto per condividere assieme a voi alcuni ragionamenti sui rapporti che legano il passato al presente, e senza i quali nemmeno il nostro futuro può essere in alcun modo immaginato.

65 sono gli anni trascorsi dall'inizio delle stragi vere e proprie che vennero perpetrate, per 20 lunghissimi mesi, nei pressi di questa caserma; fu, infatti proprio la caserma Principe Umberto a divenire, nel settembre del 1943, la sede del Comando distrettuale tedesco, e a essere utilizzata, in tutto il periodo successivo, come luogo di detenzione di decine e decine di partigiani, di militari e di semplici civili ritenuti, a torto o a ragione, colpevoli del reato peggiore: quello di aver trovato la forza di opporsi al dominio nazifascista impostosi grazie all'efficace rapidità dell'invasione tedesca. Furono tantissimi coloro i quali vennero arrestati, rinchiusi, detenuti, torturati e fucilati presso la caserma che ci ospita oggi: il primo fu l'operaio di 24 anni Antonio Rieppi, ucciso il 2 ottobre del 1943, e dopo di lui le vittime furono più di cento. Si continuò a uccidere fino al 1 maggio del 1945, e le testimonianze raccolte nel dopoguerra presso la gente di borgo San Giorgio consentono d'intuire che le cifre dell'eccidio furono forse più spaventose di quelle effettivamente accertate.

Naturalmente non si prevedeva di processare i sospettati: non esistono, di conseguenza, sentenze che chiariscano le responsabilità che venivano attribuite alle vittime di tanto accanimento; tale accanimento era funzionale alla logica intimidatoria attribuita alla brutale regolarità delle fucilazioni. Il culmine della ferocia, tuttavia, fu raggiunto dai nazifascisti in occasione dell'esposizione prolungata dei cadaveri degli otto partigiani fucilati il 18 dicembre del 1944: gli aguzzini decisero di insultare i loro colpi, esponendoli straziati all'attenzione della popolazione. Quest'ostentazione della capacità di punire i "banditi" doveva servire a generare il terrore dell'esempio: i supplizi che si prolungavano oltre la morte dovevano essere constatati da tutti, tutti dovevano assistere alla clamorosa violenza con la quale le autorità erano capaci di punire chi si ribellava.

Ricordare il terrore praticato sistematicamente dai nazifascisti non è un esercizio di retorica commemorativa: la brutalità di quei venti mesi non può essere in alcun modo ridimensionata alla stregua di una conseguenza inevitabile della guerra in corso; la banalizzazione di tanta violenza persecutoria, funzionale all'oblio in cui alcuni vorrebbero che tali vicende affondassero, rappresenterebbe il più grave degli insulti nei confronti di quelle vittime. Solo fra i cividalesi, nella lotta contro il nazifascismo i caduti furono 68, e altri 116 furono i deportati: cifre di questo genere non consentono a nessuno di occultare le proporzioni degli eccidi, né di dimenticare la gravità delle responsabilità dei fascisti che spalleggiarono attivamente i nazisti nei rastrellamenti di quei mesi.

D'altra parte, il fascismo italiano aveva avuto vent'anni a disposizione per sperimentare le tecniche repressive con le quali colpire gli oppositori: la persecuzione a danno degli antifascisti fu perseguita con tragica determinazione, e Cividale ha conosciuto direttamente la spietatezza con cui agivano le cosiddette "forze dell'ordine"; a seguito, infatti, dell'ondata di arresti scatenata a danno del Partito comunista nell'autunno del 1933, furono parecchi i cividalesi che trascorsero in carcere i mesi che precedettero il processo, intentato dal Tribunale speciale. Due di loro non arrivarono nemmeno al processo, e si suicidarono in carcere a causa della durezza delle torture subite, e un terzo, in conseguenza dello stesso trattamento, venne ricoverato in un manicomio criminale: si trattava di Dionigi Sinuelli, giovane che merita di essere ricordato anche per il ruolo di organizzatore che ebbe, nel 1932, in occasione dello sciopero che si verificò all'Italcementi di Cividale (in occasione del quale di tenne, presso la cittadina, un clamoroso corteo di protesta) . Con quale coraggio si può solo pensare di parlare del fascismo italiano come di una "dittatura da operetta"?

Certo, fu soprattutto nel corso del 1944 che si moltiplicarono i casi di violenza esasperata: la crudeltà degli oppressori cresceva proporzionalmente alla determinazione degli oppressi; nel corso di quell'anno, infatti, la Resistenza si dimostrò ostinata, e capace di estendere la propria influenza e le proprie capacità militari. I nazifascisti decisero, pertanto, di accanirsi contro le proprie vittime: la dignità di queste ultime veniva ripetutamente offesa, quasi che lo scempio dei cadaveri potesse esorcizzare i timori legati alla tenacia dimostrata da quanti avevano deciso di resistere. In questo modo, i comandi locali cercarono di fare terra bruciata attorno alla lotta armata dei partigiani, e proprio per questa ragione sarebbe sbagliato imputare la diffusione del terrore all'ineluttabilità impersonale della catena dei comandi: l'utilizzo sistematicamente eccessivo della violenza da parte degli aguzzini doveva servire a produrre paura su larga scala, e l'esibizione del disprezzo per le vittime non può essere in alcun modo derubricata alla voce "obbedienza a ordini superiori".

Che il terrore, d'altra parte, non fosse una pratica imposta dall'eccezionalità della guerra, ma una consuetudine sulla quale nazisti e fascisti costruirono la solidità dei propri regimi, è un'evidenza che il revisionismo non può mettere in discussione: proprio il terrore fu l'asse fondativo di politiche di dominio costruite sulla convinzione che la superiorità di chi deteneva il potere andasse imposta con la forza alla massa di quanti venivano considerati inferiori. I partigiani che animarono le Resistenze europee decisero di alzare la testa, e si rifiutarono di piegarsi di fronte al terrore praticato su larga scala: "Non farsi intimidire dalle rappresaglie - ha scritto Giovanni Pesce -. È l'unico modo di mantenere in efficacia le nostre forze e di far capire al nemico l'inutilità della sia ferocia" . Onorare oggi le vittime di quel terrore significa onorare la volontà di lotta e la forza morale dimostrate da quanti non smisero, negli anni della guerra, di ribellarsi.

I resistenti italiani seppero assumersi le proprie responsabilità come i loro fratelli nel resto d'Europa: seppero rifiutare l'acquiescenza, mettendo la propria vita a disposizione del riscatto di un paese che stava sprofondando nella barbarie a causa di chi lo aveva governato. "O facciamo noi o non ci illudiamo che altri faccia per noi" : era questa la convinzione che li mosse dopo l'8 settembre del 1943, data fatidica, la quale segnò la spaccatura irreversibile fra le due parti di un paese nel quale si aprì una vera e propria guerra civile; se in tanti, infatti, proprio in quei giorni decisero di animare la Resistenza, altri scelsero di schierarsi dalla parte di quanti si erano messi a disposizione dei nazisti. Secondo alcuni, proprio in occasione di quell'8 settembre sarebbe morta la patria: certo, a patto che ci s'intenda; quella che morì, a causa dell'ignominia in cui sprofondò, fu la patria razzista e imperialista dei fascisti, mentre proprio l'8 settembre rinacque la patria che stava a cuore ai democratici, ai comunisti, ai socialisti, e con essa gli ideali di riscatto ed emancipazione per i quali decisero di battersi quanti rifiutarono di continuare a subire l'oppressione che strangolava il paese.

Si trattò di una divisione profonda, che lacerò l'Italia come il resto d'Europa: non sono pochi coloro che si agitano affinché le tracce di quella divisione spariscano una volta per tutte dalla nostra memoria collettiva, in nome di una riconciliazione nazionale che si vorrebbe costruita su una storia finalmente pacificata. Ma la domanda che rivolgo a tutti voi, in quest'occasione, è molto semplice: siamo così certi che le ragioni di quella divisione siano venute meno? Io non lo sono affatto: lo sarebbero nel caso gli ideali per i quali i resistenti si sono impegnati si fossero affermati saldamente nel tessuto sociale e civile del paese; l'evidenza dei fatti, tuttavia, ci costringe a fare i conti con un'altra realtà, un realtà nella quale a prevalere non sono di certo l'uguaglianza, la giustizia e la libertà per le quali i partigiani si sono battuti contro i fascisti. Il degrado della vita politica del paese, il progressivo logoramento delle istituzioni democratiche ci inducono a ritenere che siano altri i riferimenti che attualmente prevalgono, non quelli a cui s'ispiravano i partigiani.

È anche per questa ragione che oggi non possiamo accettare l'idea di una storia condivisa, di una memoria riconciliata: le ragioni che portarono gli italiani a dividersi allora riaffiorano regolarmente in un'attualità ancora troppo lontana da quegli ideali; d'altra parte, su quali basi dovremmo fondare la storia condivisa da tanti evocata? Sul fango che da più parti, con una singolare ostinazione, si continua a gettare sulla Resistenza? Oppure sull'esaltazione di figure come quella di Mario Granbassi, volontario triestino che decise di partire alla volta della Spagna per combattere la guerra di Franco e Mussolini contro la repubblica, e a cui oggi, a Trieste, l'amministrazione comunale vuole intitolare una via? No, non ci stiamo: non c'è riconciliazione possibile con chi considera la Resistenza una pagina oscura del passato da rimuovere dall'orizzonte dei riferimenti del presente.

Per costoro, ricostruire e riscrivere la storia significa chiudere con il passato attraverso una sorta di "generale patteggiamento - ha scritto Claudio Pavone - che si conclude a somma zero" , in cui risulta necessario dimostrare che le colpe delle parti che hanno lottato si equivalgono, e che dunque si devono dimenticare: tutti colpevoli, in altre parole, e nessun colpevole, pertanto! Noi non ci stiamo, e diciamo chiaramente: guai a chi tocca la nostra storia! Chi, d'altra parte, da anni attacca la Resistenza non lo fa in conseguenza di ricerche significative, di informazioni inedite messe a disposizione dagli archivi: lo fa a causa di esigenze politiche legate alle contingenze della lotta politica; è presso i settori che prevalgono nella politica di oggi che da tempo si cerca affannosamente una nuova versione del passato; una storia capace di creare consenso, indipendentemente dai suoi legami effettivi con il passato: ecco ciò di cui hanno bisogno quanti esaltano, per esempio, i libri che continua a sfornare Pansa, polemizzando, al tempo stesso, contro i libri di testo in uso nelle scuole, considerati, evidentemente, troppo poco revisionisti.

A noi non interessano le false unanimità, costruite su un utilizzo abile della censura che agisce retroattivamente per occultare alcuni pezzi di passato a scapito di altri: di fronte ai nostri monumenti, alle nostre lapidi, è necessario ribadire la forza degli ideali dell'antifascismo di ieri e collegarli senza esitazioni alle battaglie dell'oggi, senza nascondere il senso profondo della nostra storia dietro l'ipocrisia degli abbracci pensati per occultare i significati dei conflitti che ci hanno diviso. Continueremo, invece, ad abbracciarci con i nostri fratelli sloveni, anche oggi presenti con una delegazione alla commemorazione: alcuni dei partigiani fucilati a Cividale - lo sapete - erano sloveni, e in quest'occasione non possiamo non ribadire l'immenso senso di gratitudine che nutriamo nei confronti di una Resistenza che seppe dare filo da torcere ai nazifascisti sin dal 1941, e che pagò un prezzo carissimo per la propria determinazione; basti qui ricordare che furono 30 mila gli sloveni che finirono nei campi di concentramento italiani, sui quali si sta finalmente iniziando a raccontare una verità troppo a lungo occultata . Si trattò di vittime della brutalità del nazionalismo italiano, che già nel primo dopoguerra si era consolidato come ideologia dominante fondata innanzitutto su un feroce razzismo anti-slavo.

Nemmeno la sottolineatura del carattere razzistico del nazionalismo sul quale il fascismo fondò la propria ideologia è un esercizio di retorica; è stato, infatti, Alessandro Portelli, uno dei più autorevoli storici italiani dell'oralità, a spiegare con chiarezza che "oggi l'antifascismo è lotta al razzismo": la forza di questa sua considerazione appare preziosa in una fase storica in cui gli immigrati finiscono sempre più spesso nel mirino di una politica incapace di esprimere altro rispetto a una rozza demagogia concepita per raccogliere facili consensi; lo dico da insegnante, estremamente preoccupato, per esempio, dalla proposta recente delle cosiddette classi differenziali, in cui alcune parti politiche vorrebbero che venissero "confinati" i figli degli immigrati. Proposte di questo genere ci costringono a considerare prioritario lo sforzo per tradurre in un impegno concreto gli ideali per cui si sono battuti i partigiani: il dilagare degli egoismi e dell'intolleranza va arginato, e il dovere della solidarietà non va semplicemente evocato, ma va praticato!

Vi propongo queste riflessioni con in mente le parole recenti, riferite alla vergogna delle leggi razziali, del Presidente della Camera, che voglio citarvi: "C'è da chiedersi perché la società italiana si sia adeguata (...) Alla base della mancata reazione della popolazione ci fu la propensione al conformismo, una sorta di vocazione all'indifferenza diffusa nella società di allora"; parole importanti, certo, ma per quale ragione non sono state seguite dalla doverosa valorizzazione dell'impegno di quanti rifiutarono di rimanere indifferenti? La forza che animò gli antifascisti corrispose a una tenace volontà di non restare più in disparte: volevano esserci, volevano indignarsi, volevano disubbidire! Rifiutarono, grazie a questa forza d'animo, di adeguarsi al conformismo dominante: ha scritto lo storico Enzo Collotti che "la Resistenza fu proprio il contrario di un'acquiescenza all'indifferenza dei valori" , e noi abbiamo il dovere di ricordarlo, quando gli altri se ne dimenticano. Essa rappresentò la riscoperta della dignità e della libertà per quegli italiani che il regime avrebbe voluto costringere in uno stato di permanente passività, ed è di questa riscoperta che dobbiamo parlare ai giovani che vorremmo appassionati come noi alle vicende cui ci sentiamo legati e che ricordiamo in queste occasioni.

Abbiamo il dovere di trasmettere ai giovani i significati etici, oltre che politici, che innervarono le scelte di quanti rifiutarono in quegli anni l'acquiescenza; in questo modo riprenderemo a essere capaci di trasmettere loro delle emozioni, quelle emozioni indispensabili per suscitare in loro la voglia di partecipare, di esserci, di non rimanere in disparte. Del loro entusiasmo c'è e continuerà a esserci un grande bisogno, proprio perché l'impresa cui si erano dedicati allora i resistenti è ben lungi dall'essere realizzata; che non si sarebbe trattato di un'impresa semplice, d'altra parte, i resistenti di allora se ne resero rapidamente conto: "Si lottava per cambiare il mondo, e io penso di aver fatto tutto il mio dovere per tentare di modificare le cose. Mi pare che, in parte, dei miglioramenti ci sono stati (...) Ma noi volevamo che il lavoro fosse un bene di tutti, un diritto di tutti. Aspiravamo a una società senza sfruttati né sfruttatori, e da questo mi pare che siamo ancora molto lontani" . È proprio a quell'aspirazione che dovremmo ricollegarci, con la fiducia che a essa sapranno appassionarsi anche i giovani ai quali impareremo di nuovo a parlare con orgoglio dei "nostri" partigiani e della "nostra" Resistenza.

Cividale del Friuli, 21 dicembre 2008

Gabriele Donato