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ANPI
Cividale del Friuli

Commemorazione dei partigiani fuciliati
al campo sportivo e delle 105 vittime
alle "Fosse del Natisone
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Signor Sindaco, autorità militari e civili, rappresentanti delle associazioni combattentistiche, cittadini,

ringrazio per il grande onore che mi è concesso e mi accingo, spero con l'umiltà e la discrezione dovute alla sacralità del luogo e della circostanza, a proporre alcune considerazioni che riguardano il senso del nostro essere oggi qui. Questa manifestazione è, fra le celebrazioni dei caduti e degli eventi della guerra di Liberazione, particolarmente sentita dai cividalesi. Essa ha sempre visto una larga partecipazione di popolo, forse perché i fatti che siamo qui a ricordare si sono verificati nel cuore della Città: ci sono ancora i testimoni che raccontano degli spari uditi quotidianamente e degli interrogativi angosciosi che suscitavano. Dunque, commemoriamo, cioè ricordiamo riuniti insieme. Lo facciamo in forma rituale, rilevare la qual cosa non significa sminuirne il significato, ma ricondurre il nostro agire a una radice antica, che ne fa uno dei modi della celebrazione della storia. I Greci avevano riconosciuto alla storia la protezione e l'ispirazione della musa Clio. Come si sa, le muse erano le dee protettrici del canto, delle arti e delle scienze. Erano figlie di Zeus e di Mnemosine, la dea della memoria. Sembra quindi che la storia, quale attività umana legata al ricordo, all'attività o all'arte specificamente umana del ricordare, fosse ispirata dalla divinità. Per i greci ricordare il passato, ricordarlo in forma rituale, era un momento fondamentale nel quale la memoria individuale si sostanziava di quella comune, di quella della koinè, cioè della comunità degli individui, che assumevano coscienza di essere uniti fra loro da un complesso di valori. È esattamente secondo questa accezione del ricordo che noi siamo qui e ci ritroviamo con cadenza annuale. Nel nostro rituale ricordare riaffermiamo il senso di una identità collettiva, rinsaldiamo i legami della koinè, meditiamo sui valori che animano il nostro vivere associato e civile.
Ma le celebrazioni in cui viene richiamata la storia, in cui si coinvolge o si scuote la memoria, sono tipiche di tutte le realtà umane che abbiano maturato il senso di una identità. Tuttavia, nel Novecento la commemorazione rituale e la ricostruzione dell'identità storica sono state usate come una formidabile macchina propagandistica per la creazione del consenso intorno a regimi autoritari. Sono presenti nella memoria di tutti i richiami del regime fascista ai fasti della Roma imperiale, richiami visibili nella simbologia, nei gesti del saluto, nell'iconografia. Indicare il radicamento del presente nel passato, individuato in qualsiasi epoca storica, è quanto di più efficace ci sia per rinsaldare un potere costituito, dando lustro a un presente che si vuole mantenere e magnificando i natali di una progenie della quale giova trovare il blasone della nobiltà.
Ma la storia non si riduce all'uso che di essa si fa, che, come ho cercato di mostrare, nasconde in sé un'ambivalenza costitutiva. La storia è anche, e per noi soprattutto, un'attività che al passato guarda con modalità e con scopi diversi, cioè con l'intento di ricostruire un'immagine di ciò che è stato, per comprendere il presente, secondo le indicazioni di un metodo scientifico. La storia, nell'accezione corrente, è l'attività dello storico, di un professionista che si fa storiografo, ricercatore e scrittore dei fatti e degli avvenimenti storici. Il crisma di scientificità dell'attività storiografica sta nel rispetto di precise indicazioni metodologiche, le quali prescrivono come imprescindibile la considerazione e la valutazione dei documenti. Per questa accezione della storia i greci, sempre loro, usavano il nome di istoria, che significa "ricerca". La ricerca storica si fonda dunque sull'esame scrupoloso dei documenti quali veicolo per la ricostruzione di un passato, che diviene racconto storico: una narrazione, una storia, laddove il termine mostra l'ulteriore accezione semantica che ce lo fa usare per riferirci anche alle storie che si raccontano ai bambini, per esempio.
Ora, noi ci troviamo qui a ricordare ritualmente fatti e avvenimenti la cui memoria ci è possibile serbare perché essa è frutto di un lavoro di ricerca su quanto accadeva in questo luogo. La ricerca è quella del prof. Jacolutti, che nel 1975 pubblicava un libro, intitolato "Fosse del Natisone". Da esso apprendiamo delle vicende di vita e delle circostanze della morte di persone, la maggioranza delle quali rimane senza nome. Il valore di quest'opera di ricerca era stato ravvisato dall'amministrazione comunale di Cividale del Friuli, allora guidata dal compianto prof. Del Basso, che decise di curarne la pubblicazione. Con un impegno ufficiale, la comunità di Cividale riconosceva l'importanza di questi ricordi, perché fondativi della memoria, quindi dell'identità di tutti noi. In questo io vedo realizzato l'incontro e l'unificazione delle due modalità essenziali della narrazione storica, che è a un tempo Clio e istoria. Più propriamente, io riconosco in ciò la compiutezza di una articolazione delle due accezioni della storia cui ho fatto riferimento.
Il passato e il presente sono sempre in un rapporto dialettico, fatto di rimandi, di verifiche, di scoperte. Questo accade innanzitutto nelle vicende individuali e accade nelle vicende collettive. Il presente si fa passato e il passato arricchisce il presente di contenuti nuovi, rielaborati e assunti dalla memoria. L'opera dello storico va quindi letta come un'interrogazione rivolta a ciò che è stato, ma sostanziata da un'urgenza presente e viva. Lo storico, l'interrogante è figlio del suo tempo e cercando nel passato, da cacciatore si fa preda, come Atteone, che rimane vittima dei suoi cani. L'aspetto problematico della cosa sta nel fatto che l'interrogato e colui che cerca sono, in modo mediato, la stessa persona. Lo storico è portatore dei valori ereditati dal passato e è sollecitato dall'urgenza dei problemi dell'oggi, che vuole decifrare e capire. L'occasione che ci vede riuniti è il frutto di una dialettica di questo tipo. La memoria che rinsaldiamo è frutto di una ricostruzione storica, istoria, che diventa identità nella cerimonia e e nel rito, Clio.
Così, l'attenzione si sposta sui motivi, vivi e concreti, che ci tengono qui, dopo che hanno alimentato la ricerca intorno ai fatti rievocati. I valori che stiamo celebrando sono quelli scritti nella Costituzione italiana, fondativi della nostra vita civile e democratica. Sono i principi che riaffermiamo in contrapposizione a idee e a sistemi politici sui quali il giudizio storico è da considerare consolidato. La nostra presenza qui è il tributo alle persone che hanno manifestato con il pensiero e con l'azione una scelta che si rivela per noi decisiva. I morti nelle fosse del Natisone hanno risposto a una sollecitazione della storia e hanno consegnato alla storia viva nella nostra memoria le loro vite.
Come ho ricordato, molti di loro rimangono senza nome. Le vittime del nazifascismo sono in grande misura senza nome. I resti degli anonimi caduti nelle fosse del Natisone giacciono in cassette numerate. I destinati a morte certa nei campi di sterminio erano "stucke", pezzi, numerati dai loro aguzzini. Funzionari solerti ne appuntavano la matricola nei libri dove si teneva una ignominiosa contabilità: quei numeri entravano nel computo dei ricavi che il Terzo Reich otteneva dallo sfruttamento di esistenze schiave, la cui eliminazione poteva così avvenire a costo zero, in una macchina autoalimentata chiamata "lager". Il nazifascismo perseguiva l'obiettivo di una società depurata di elementi di turbativa, quali erano tutti gli individui che variamente risultavano "diversi", devianti rispetto a uno standard prefissato. Ecco che cosa accomuna i morti dei lager e quelli del campo sportivo e delle fosse del Natisone: il fatto di essere le cifre di un esubero. Questo siamo qui a ricordare.
Il monito che Primo Levi ha anteposto a Se questo è un uomo suona così: "Meditate che questo è stato: / Vi comando queste parole. / Scolpitele nel vostro cuore / Stando in casa andando per via, / Coricandovi alzandovi; / Ripetetele ai vostri figli. / O vi si sfaccia la casa, / La malattia vi impedisca, / I vostri nati torcano il viso da voi". Sono parole terribili, che ci danno il metro della necessità e dell'importanza della memoria. Lo stesso Primo Levi, riflettendo sul sistema dei lager, ha più volte affermato che esso non si può scorporare da una ideologia e da una pratica politica, che proprio in esso aveva un caposaldo e intorno a esso si reggeva. Il lager, cioè, non è stato un accessorio o una scelta congiunturale e non si può pensare a un nazismo, né a un fascismo, senza i lager, le epurazioni, la soppressione della libertà, perché quelle ideologie negano lo stesso diritto di esistenza della diversità. Per questo motivo, noi, figli di questo secolo tremendo e della Resistenza all'oppressione, abbiamo formulato e siamo qui a riaffermare un giudizio inappellabile sul fascismo e sul nazismo.
Oggi vi sono storici che negano l'esistenza dei campi di sterminio, che puntano a una rilettura del totalitarismo di destra e tendono a affermare l'idea che dei regimi fascista e nazista vi sia qualcosa da rivalutare. Si tratta del cosiddetto "revisionismo storico", che si sta affermando anche in Italia, dove trova credito anche in sedi istituzionali da parte di forze politiche e di uomini che lo propugnano con intenti strumentali evidenti. È dunque un fenomeno chiaramente alimentato da motivazioni congiunturali e da interessi legati al presente. Il che non costituisce uno scandalo di per sé, se consideriamo quanto si è detto poco fa sulla natura della storia.
La ricerca storica è per sua essenza "revisionista". Essa ritorna costantemente sui suoi passi e lo fa tanto più quanto più è seria e metodologicamente corretta. Ciò accade perché le linee in cui si addipana la materia storica sono molteplici, di principio non determinabili nel numero. Quelle linee rappresentano ordini di fenomeni intersecantisi, che si muovono a velocità diverse e che producono effetti e variazioni su ampio spettro. È quanto ci hanno insegnato i grandi storici di questo secolo: da Marc Bloch a Fernand Braudel, agli storici della scuola delle "Annales". Ci hanno spiegato che, nel dipanare quel flusso diacronico, incessante e multidimensionale sotto le cui sembianze si presenta la materia oggetto della ricerca, ogni acquisizione storiografica tende a irrigidirsi. Rispetto al trascorrere degli eventi, lo storico tratteggia un'immagine sincronica, statica. Max Weber parlava di "tipi ideali", per indicare quelle categorie generali, ma anche generiche, di cui ci serviamo per parlare dei grandi fatti storici. È giocoforza così, in virtù di quella che abbiamo riconosciuto come una dialettica fra il passato magmatico degli avvenimenti e la qualità delle domande dello storico, che attraverso il passato intende spiegare il presente. Ecco perché la scrittura storica, nei diversi approcci e nelle diverse forme della narrazione, è una incessante riscrittura.
L'ho detto prima: lo storico è figlio del suo tempo. Perciò sbaglieremmo a non tenere nella dovuta considerazione le ragioni di chi punta a una revisione della storia guidato da fini ideologici e politici. Dobbiamo considerare quali siano quei fini e dobbiamo confrontare con essi i criteri che informano la nostra visione del passato e del presente, il nostro modo di sentire la storia come Clio e come istoria.
Scopriamo in questo modo che le nostre ragioni risiedono nell'abbracciare un sistema di valori opposto alla concezione intrinsecamente illiberale e violenta del nazifascismo, cioè di un'ideologia sostanziata del razzismo e della xenofobia che oggi vediamo rinascere sotto la pressione delle grandi sfide della nostra epoca. Il fenomeno della globalizzazione induce paure irrazionali e queste sono il cardine su cui si impernia il rilancio di idee nefaste e di proposte autoritarie, che cercano di imbellettarsi attraverso una reinterpretazione della storia pretestuosa e in molti casi patentemente mistificatoria. Alle sfide e alle paure del nostro tempo non si deve rispondere con la limitazione delle libertà individuali, con la negazione dei diritti umani, con la creazione artefatta di un nemico da combattere. Si deve fare appello alle risorse che il sistema democratico ha in sé, che gli permettono di considerare la diversità come ricchezza, l'alterità come occasione di crescita culturale, la solidarietà come la condotta normale di un uomo che incontra un altro uomo in difficoltà.
Sono queste le nostre convinzioni, strutturate intorno a principi universali, che riconoscono i diritti umani sacri e inviolabili. Sono queste le convinzioni tenute in gestazione nella storia che siamo qui a celebrare e presenti nella nostra memore identità. Come ho detto poco fa, nel sacrificio dei morti del campo sportivo e delle fosse del Natisone, onoriamo la Costituzione italiana, che è figlia della guerra di Liberazione, cioè della lotta di un popolo che in essa, contro il nazifascismo, ha maturato i valori della democrazia e della civiltà. Alle derive o ai rigurgiti neofascisti, al revisionismo come operazione ideologica le coscienze libere d'Italia oppongono l'orgoglio di una irreversibile scelta democratica, figlia di una storia incancellabile.
Forse, se in questi anni difficili il nostro patrimonio ideale e culturale va difeso, è perché non si è esercitata la memoria, allentando l'attenzione verso pericoli che per un comprensibile ottimismo si credevano ormai scampati per sempre. Evidentemente le cose non stanno così e la gravità dei tempi ci impone una difesa dei valori costituzionali. La presenza di noi tutti in questa giornata è l'esercizio di quella difesa e vogliamo che sia monito e stimolo a che si riscopra l'importanza di una pratica democratica che sia nutrita e sostenuta dalla testimonianza di ognuno. I morti che ricordiamo hanno testimoniato, lo hanno fatto attingendo al senso profondo della parola: nell'etimologia greca il "testimone" è "martire".
La democrazia vive di partecipazione, che è la testimonianza quotidiana di tutti, sui luoghi di lavoro come nella prassi amministrativa. Una dittatura vive del sonno delle coscienze e la democrazia muore se le coscienze si assopiscono.
Riaffermiamo dunque il nostro essere figli della storia che oggi qui rievochiamo, anche smascherando e rifiutando i tentativi di revisionismo, capziosi e in malafede, che puntano a indebolire la saldezza di principi che, temprati nel sangue e nel sacrificio di molti, sono il patrimonio di un'umanità libera.
Difendiamo l'Italia libera e democratica in un'Europa dei popoli e delle diversità.
Viva la Resistenza, viva l'Italia, viva la libertà.

 Cividale del Friuli, 17 dicembre 2000

Domenico Pinto