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Signor Sindaco, autorità
militari e civili, rappresentanti delle associazioni combattentistiche,
cittadini, |
ringrazio per il grande onore
che mi è concesso e mi accingo, spero con l'umiltà
e la discrezione dovute alla sacralità del luogo e della
circostanza, a proporre alcune considerazioni che riguardano
il senso del nostro essere oggi qui. Questa manifestazione è,
fra le celebrazioni dei caduti e degli eventi della guerra di
Liberazione, particolarmente sentita dai cividalesi. Essa ha
sempre visto una larga partecipazione di popolo, forse perché
i fatti che siamo qui a ricordare si sono verificati nel cuore
della Città: ci sono ancora i testimoni che raccontano
degli spari uditi quotidianamente e degli interrogativi angosciosi
che suscitavano. Dunque, commemoriamo, cioè ricordiamo
riuniti insieme. Lo facciamo in forma rituale, rilevare la qual
cosa non significa sminuirne il significato, ma ricondurre il
nostro agire a una radice antica, che ne fa uno dei modi della
celebrazione della storia. I Greci avevano riconosciuto alla
storia la protezione e l'ispirazione della musa Clio. Come si
sa, le muse erano le dee protettrici del canto, delle arti e
delle scienze. Erano figlie di Zeus e di Mnemosine, la dea della
memoria. Sembra quindi che la storia, quale attività umana
legata al ricordo, all'attività o all'arte specificamente
umana del ricordare, fosse ispirata dalla divinità. Per
i greci ricordare il passato, ricordarlo in forma rituale, era
un momento fondamentale nel quale la memoria individuale si sostanziava
di quella comune, di quella della koinè, cioè della
comunità degli individui, che assumevano coscienza di
essere uniti fra loro da un complesso di valori. È esattamente
secondo questa accezione del ricordo che noi siamo qui e ci ritroviamo
con cadenza annuale. Nel nostro rituale ricordare riaffermiamo
il senso di una identità collettiva, rinsaldiamo i legami
della koinè, meditiamo sui valori che animano il nostro
vivere associato e civile.
Ma le celebrazioni in cui viene richiamata la storia, in cui
si coinvolge o si scuote la memoria, sono tipiche di tutte le
realtà umane che abbiano maturato il senso di una identità.
Tuttavia, nel Novecento la commemorazione rituale e la ricostruzione
dell'identità storica sono state usate come una formidabile
macchina propagandistica per la creazione del consenso intorno
a regimi autoritari. Sono presenti nella memoria di tutti i richiami
del regime fascista ai fasti della Roma imperiale, richiami visibili
nella simbologia, nei gesti del saluto, nell'iconografia. Indicare
il radicamento del presente nel passato, individuato in qualsiasi
epoca storica, è quanto di più efficace ci sia
per rinsaldare un potere costituito, dando lustro a un presente
che si vuole mantenere e magnificando i natali di una progenie
della quale giova trovare il blasone della nobiltà.
Ma la storia non si riduce all'uso che di essa si fa, che, come
ho cercato di mostrare, nasconde in sé un'ambivalenza
costitutiva. La storia è anche, e per noi soprattutto,
un'attività che al passato guarda con modalità
e con scopi diversi, cioè con l'intento di ricostruire
un'immagine di ciò che è stato, per comprendere
il presente, secondo le indicazioni di un metodo scientifico.
La storia, nell'accezione corrente, è l'attività
dello storico, di un professionista che si fa storiografo, ricercatore
e scrittore dei fatti e degli avvenimenti storici. Il crisma
di scientificità dell'attività storiografica sta
nel rispetto di precise indicazioni metodologiche, le quali prescrivono
come imprescindibile la considerazione e la valutazione dei documenti.
Per questa accezione della storia i greci, sempre loro, usavano
il nome di istoria, che significa "ricerca". La ricerca
storica si fonda dunque sull'esame scrupoloso dei documenti quali
veicolo per la ricostruzione di un passato, che diviene racconto
storico: una narrazione, una storia, laddove il termine mostra
l'ulteriore accezione semantica che ce lo fa usare per riferirci
anche alle storie che si raccontano ai bambini, per esempio.
Ora, noi ci troviamo qui a ricordare ritualmente fatti e avvenimenti
la cui memoria ci è possibile serbare perché essa
è frutto di un lavoro di ricerca su quanto accadeva in
questo luogo. La ricerca è quella del prof. Jacolutti,
che nel 1975 pubblicava un libro, intitolato "Fosse del
Natisone". Da esso apprendiamo delle vicende di vita e delle
circostanze della morte di persone, la maggioranza delle quali
rimane senza nome. Il valore di quest'opera di ricerca era stato
ravvisato dall'amministrazione comunale di Cividale del Friuli,
allora guidata dal compianto prof. Del Basso, che decise di curarne
la pubblicazione. Con un impegno ufficiale, la comunità
di Cividale riconosceva l'importanza di questi ricordi, perché
fondativi della memoria, quindi dell'identità di tutti
noi. In questo io vedo realizzato l'incontro e l'unificazione
delle due modalità essenziali della narrazione storica,
che è a un tempo Clio e istoria. Più propriamente,
io riconosco in ciò la compiutezza di una articolazione
delle due accezioni della storia cui ho fatto riferimento.
Il passato e il presente sono sempre in un rapporto dialettico,
fatto di rimandi, di verifiche, di scoperte. Questo accade innanzitutto
nelle vicende individuali e accade nelle vicende collettive.
Il presente si fa passato e il passato arricchisce il presente
di contenuti nuovi, rielaborati e assunti dalla memoria. L'opera
dello storico va quindi letta come un'interrogazione rivolta
a ciò che è stato, ma sostanziata da un'urgenza
presente e viva. Lo storico, l'interrogante è figlio del
suo tempo e cercando nel passato, da cacciatore si fa preda,
come Atteone, che rimane vittima dei suoi cani. L'aspetto problematico
della cosa sta nel fatto che l'interrogato e colui che cerca
sono, in modo mediato, la stessa persona. Lo storico è
portatore dei valori ereditati dal passato e è sollecitato
dall'urgenza dei problemi dell'oggi, che vuole decifrare e capire.
L'occasione che ci vede riuniti è il frutto di una dialettica
di questo tipo. La memoria che rinsaldiamo è frutto di
una ricostruzione storica, istoria, che diventa identità
nella cerimonia e e nel rito, Clio.
Così, l'attenzione si sposta sui motivi, vivi e concreti,
che ci tengono qui, dopo che hanno alimentato la ricerca intorno
ai fatti rievocati. I valori che stiamo celebrando sono quelli
scritti nella Costituzione italiana, fondativi della nostra vita
civile e democratica. Sono i principi che riaffermiamo in contrapposizione
a idee e a sistemi politici sui quali il giudizio storico è
da considerare consolidato. La nostra presenza qui è il
tributo alle persone che hanno manifestato con il pensiero e
con l'azione una scelta che si rivela per noi decisiva. I morti
nelle fosse del Natisone hanno risposto a una sollecitazione
della storia e hanno consegnato alla storia viva nella nostra
memoria le loro vite.
Come ho ricordato, molti di loro rimangono senza nome. Le vittime
del nazifascismo sono in grande misura senza nome. I resti degli
anonimi caduti nelle fosse del Natisone giacciono in cassette
numerate. I destinati a morte certa nei campi di sterminio erano
"stucke", pezzi, numerati dai loro aguzzini. Funzionari
solerti ne appuntavano la matricola nei libri dove si teneva
una ignominiosa contabilità: quei numeri entravano nel
computo dei ricavi che il Terzo Reich otteneva dallo sfruttamento
di esistenze schiave, la cui eliminazione poteva così
avvenire a costo zero, in una macchina autoalimentata chiamata
"lager". Il nazifascismo perseguiva l'obiettivo di
una società depurata di elementi di turbativa, quali erano
tutti gli individui che variamente risultavano "diversi",
devianti rispetto a uno standard prefissato. Ecco che cosa accomuna
i morti dei lager e quelli del campo sportivo e delle fosse del
Natisone: il fatto di essere le cifre di un esubero. Questo siamo
qui a ricordare.
Il monito che Primo Levi ha anteposto a Se questo è un
uomo suona così: "Meditate che questo è stato:
/ Vi comando queste parole. / Scolpitele nel vostro cuore / Stando
in casa andando per via, / Coricandovi alzandovi; / Ripetetele
ai vostri figli. / O vi si sfaccia la casa, / La malattia vi
impedisca, / I vostri nati torcano il viso da voi". Sono
parole terribili, che ci danno il metro della necessità
e dell'importanza della memoria. Lo stesso Primo Levi, riflettendo
sul sistema dei lager, ha più volte affermato che esso
non si può scorporare da una ideologia e da una pratica
politica, che proprio in esso aveva un caposaldo e intorno a
esso si reggeva. Il lager, cioè, non è stato un
accessorio o una scelta congiunturale e non si può pensare
a un nazismo, né a un fascismo, senza i lager, le epurazioni,
la soppressione della libertà, perché quelle ideologie
negano lo stesso diritto di esistenza della diversità.
Per questo motivo, noi, figli di questo secolo tremendo e della
Resistenza all'oppressione, abbiamo formulato e siamo qui a riaffermare
un giudizio inappellabile sul fascismo e sul nazismo.
Oggi vi sono storici che negano l'esistenza dei campi di sterminio,
che puntano a una rilettura del totalitarismo di destra e tendono
a affermare l'idea che dei regimi fascista e nazista vi sia qualcosa
da rivalutare. Si tratta del cosiddetto "revisionismo storico",
che si sta affermando anche in Italia, dove trova credito anche
in sedi istituzionali da parte di forze politiche e di uomini
che lo propugnano con intenti strumentali evidenti. È
dunque un fenomeno chiaramente alimentato da motivazioni congiunturali
e da interessi legati al presente. Il che non costituisce uno
scandalo di per sé, se consideriamo quanto si è
detto poco fa sulla natura della storia.
La ricerca storica è per sua essenza "revisionista".
Essa ritorna costantemente sui suoi passi e lo fa tanto più
quanto più è seria e metodologicamente corretta.
Ciò accade perché le linee in cui si addipana la
materia storica sono molteplici, di principio non determinabili
nel numero. Quelle linee rappresentano ordini di fenomeni intersecantisi,
che si muovono a velocità diverse e che producono effetti
e variazioni su ampio spettro. È quanto ci hanno insegnato
i grandi storici di questo secolo: da Marc Bloch a Fernand Braudel,
agli storici della scuola delle "Annales". Ci hanno
spiegato che, nel dipanare quel flusso diacronico, incessante
e multidimensionale sotto le cui sembianze si presenta la materia
oggetto della ricerca, ogni acquisizione storiografica tende
a irrigidirsi. Rispetto al trascorrere degli eventi, lo storico
tratteggia un'immagine sincronica, statica. Max Weber parlava
di "tipi ideali", per indicare quelle categorie generali,
ma anche generiche, di cui ci serviamo per parlare dei grandi
fatti storici. È giocoforza così, in virtù
di quella che abbiamo riconosciuto come una dialettica fra il
passato magmatico degli avvenimenti e la qualità delle
domande dello storico, che attraverso il passato intende spiegare
il presente. Ecco perché la scrittura storica, nei diversi
approcci e nelle diverse forme della narrazione, è una
incessante riscrittura.
L'ho detto prima: lo storico è figlio del suo tempo. Perciò
sbaglieremmo a non tenere nella dovuta considerazione le ragioni
di chi punta a una revisione della storia guidato da fini ideologici
e politici. Dobbiamo considerare quali siano quei fini e dobbiamo
confrontare con essi i criteri che informano la nostra visione
del passato e del presente, il nostro modo di sentire la storia
come Clio e come istoria.
Scopriamo in questo modo che le nostre ragioni risiedono nell'abbracciare
un sistema di valori opposto alla concezione intrinsecamente
illiberale e violenta del nazifascismo, cioè di un'ideologia
sostanziata del razzismo e della xenofobia che oggi vediamo rinascere
sotto la pressione delle grandi sfide della nostra epoca. Il
fenomeno della globalizzazione induce paure irrazionali e queste
sono il cardine su cui si impernia il rilancio di idee nefaste
e di proposte autoritarie, che cercano di imbellettarsi attraverso
una reinterpretazione della storia pretestuosa e in molti casi
patentemente mistificatoria. Alle sfide e alle paure del nostro
tempo non si deve rispondere con la limitazione delle libertà
individuali, con la negazione dei diritti umani, con la creazione
artefatta di un nemico da combattere. Si deve fare appello alle
risorse che il sistema democratico ha in sé, che gli permettono
di considerare la diversità come ricchezza, l'alterità
come occasione di crescita culturale, la solidarietà come
la condotta normale di un uomo che incontra un altro uomo in
difficoltà.
Sono queste le nostre convinzioni, strutturate intorno a principi
universali, che riconoscono i diritti umani sacri e inviolabili.
Sono queste le convinzioni tenute in gestazione nella storia
che siamo qui a celebrare e presenti nella nostra memore identità.
Come ho detto poco fa, nel sacrificio dei morti del campo sportivo
e delle fosse del Natisone, onoriamo la Costituzione italiana,
che è figlia della guerra di Liberazione, cioè
della lotta di un popolo che in essa, contro il nazifascismo,
ha maturato i valori della democrazia e della civiltà.
Alle derive o ai rigurgiti neofascisti, al revisionismo come
operazione ideologica le coscienze libere d'Italia oppongono
l'orgoglio di una irreversibile scelta democratica, figlia di
una storia incancellabile.
Forse, se in questi anni difficili il nostro patrimonio ideale
e culturale va difeso, è perché non si è
esercitata la memoria, allentando l'attenzione verso pericoli
che per un comprensibile ottimismo si credevano ormai scampati
per sempre. Evidentemente le cose non stanno così e la
gravità dei tempi ci impone una difesa dei valori costituzionali.
La presenza di noi tutti in questa giornata è l'esercizio
di quella difesa e vogliamo che sia monito e stimolo a che si
riscopra l'importanza di una pratica democratica che sia nutrita
e sostenuta dalla testimonianza di ognuno. I morti che ricordiamo
hanno testimoniato, lo hanno fatto attingendo al senso profondo
della parola: nell'etimologia greca il "testimone"
è "martire".
La democrazia vive di partecipazione, che è la testimonianza
quotidiana di tutti, sui luoghi di lavoro come nella prassi amministrativa.
Una dittatura vive del sonno delle coscienze e la democrazia
muore se le coscienze si assopiscono.
Riaffermiamo dunque il nostro essere figli della storia che oggi
qui rievochiamo, anche smascherando e rifiutando i tentativi
di revisionismo, capziosi e in malafede, che puntano a indebolire
la saldezza di principi che, temprati nel sangue e nel sacrificio
di molti, sono il patrimonio di un'umanità libera.
Difendiamo l'Italia libera e democratica in un'Europa dei popoli
e delle diversità.
Viva la Resistenza, viva l'Italia, viva la libertà.
Cividale del
Friuli, 17 dicembre 2000 |
prof.
Domenico Pinto |
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