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Più degli storici,
in tante occasioni sono stati gli scrittori a comunicare della
Resistenza immagini vivide: la potenza descrittiva delle loro
parole si propone con unefficacia che solo in poche occasioni
i ricercatori sono in grado di produrre. Ecco la ragione per
cui voglio iniziare la mia riflessione con le parole di uno scrittore;
si tratta di una citazione da un romanzo che sicuramente alcuni
di voi conoscono: I piccoli maestri di Luigi Meneghello.
Cè un dialogo tra due partigiani: uno studente e
un combattente di origini popolari, il leader di questa formazione.
In un momento di pausa dagli impegni della lotta si confrontano:
discutono di quello che stava succedendo e di quello che sarebbe
successo poi, a guerra conclusa. Lo studente si rivolge al suo
compagno con queste parole:
E dopo? dissi io.
Dopo andrà su un Governo no? rispose il combattente
più esperto.
Gli domandai continua lo studente se non gli interessava
che Governo andasse su. Il Castagna mi disse di fargli vedere
le mani. Gliele feci vedere dalla parte delle palme (
)
e lui ci mise vicino le sue. Sulle palme io avevo qualche callo,
qua e là, ma recente, pallido, avventizio; lui aveva tutta
una crosta antica quasi congenita; non erano calli ma una mutazione
dei tessuti.
Vedi disse il Castagna quando va su un Governo,
noialtri dobbiamo lavorare.
E una conclusione amara, ma enormemente lucida: durante
limpegno i partigiani, alcuni almeno, erano perfettamente
consapevoli di quello che poi li avrebbe aspettati. Il ritorno
al lavoro, mentre altri avrebbero potuto governare, comandare,
grazie allimpegno di coloro i quali avevano combattuto.
Donne e uomini del popolo seppero, nel corso degli anni della
Resistenza, trovare la forza e la capacità di essere protagonisti,
pur essendo consapevoli che, dopo, protagonisti sarebbero stati
altri.
Non
solo tanti di questi combattenti non poterono poi essere protagonisti:
in alcuni casi vennero addirittura perseguitati.
Vennero osteggiati, vennero messi ai margini e voi lo sapete
molto bene, perché fu il destino riservato a tanti partigiani
di queste Valli: faccio riferimento naturalmente ai partigiani
della Beneska Ceta. Faccio riferimento al processo intentato
nei loro confronti. Non solo vennero messi ai margini, ma vennero
processati. Quando li ricordiamo, dobbiamo ricordare anche queste
contraddizioni del dopo, perché ci consentono forse di
essere ancora più lucidi nel riflettere sui problemi che
vogliamo ricordare, sulle vicende che ci stanno a cuore, superando
linevitabile retorica con la quale a volte appuntamenti
come questo si caratterizzano.
Ma chi erano questi combattenti, protagonisti nel momento della
battaglia ed emarginati poi? Chi erano ad esempio i giovani delle
Valli che decisero di unirsi alle formazioni partigiane? Pensiamo
ai quaranta giovani processati della Beneska Ceta. Gran parte
figli di contadini, alcuni operai, un paio di impiegati, un insegnante,
uno studente
Guardate che le stesse percentuali le troveremmo
se andassimo a indagare la composizione sociale di tutta la Resistenza,
di questi paesi ma non solo: anche dellantifascismo precedente
a quello resistenziale, lantifascismo cospirativo degli
anni Venti e Trenta. Moltissimi operai, moltissimi contadini,
qualche intellettuale, qualche professionista
erano quelle
le percentuali.
In più cè un aspetto, laspetto generazionale:
di quella quarantina di partigiani metà, quando scelsero
di combattere, non avevano ancora trentanni. Vale la pena
di sottolineare anche questo aspetto perché quei giovani
seppero rompere un meccanismo di acquiescenza nei confronti del
potere che aveva funzionato e che anzi continuava a funzionare
in quegli stessi mesi per tantissimi. Prevalse penso che
sia il caso di ricordarlo anche in questa occasione qua
e altrove la propensione al conformismo. Prevalse una certa predisposizione
allindifferenza che era diffusa e ha senso ribadirlo proprio
quando si ricorda coloro i quali seppero rompere questo meccanismo,
il meccanismo dellubbidienza, dellacquiescenza, del
conformismo. Perché la Resistenza fu esattamente il contrario
dellindifferenza.
Ma questa scelta fu agita da minoranze, minoranze significative
naturalmente: a rompere gli indugi non furono in pochi, ma la
maggioranza della popolazione cercò anche nei momenti
delle scelte decisive di rimanere in disparte. Prevalse un sentimento
di sconcerto per quel che stava succedendo, di paura di fronte
agli scontri che si moltiplicavano tra il potere (gli occupatori)
e la presenza partigiana. In tanti casi le parti in conflitto
vennero percepite come egualmente ostili e questo va sottolineato
nel momento in cui ci occupiamo di ricordare coloro i quali rifiutarono
questa logica, perché coloro i quali rifiutarono questa
logica le partigiane e i partigiani furono costretti
a fare i conti anche con la diffidenza di coloro i quali vivevano
e lavoravano in tanti casi assieme a loro. A maggior ragione
la loro scelta merita di essere ricordata con insistenza, con
insistenza martellante mi verrebbe da dire.
Ma comera composta la presenza partigiana in queste Valli?
Beh era una presenza composita, e alcuni di voi lo sanno molto
bene: esistevano, a partire dalla primavera del 1943, le compagnie
aggregate allEsercito di Liberazione jugoslavo; esistevano
i battaglioni garibaldini ed esistevano anche le formazioni osovane.
Tre resistenze almeno, che in alcune occasioni seppero trovare
punti di equilibrio, di accordo, di collaborazione, ma in altre
occasioni vissero situazioni di fortissima tensione, di conflitto
aperto. Ricordare questa articolazione variegata della Resistenza,
in queste Valli come altrove, è importante. E importante
anche in questo caso per evitare di farci travolgere da un certo
tipo di retorica unitaria e celebrativa.
Leggevo recentemente unintervista al Presidente della Repubblica
dellormai ex direttore di Repubblica che enfatizzava
la Resistenza come ribellione nazionale, unitaria, italiana.
Beh se questa è lenfasi che dobbiamo accettare,
ci dobbiamo convincere che un intero Paese, compattamente, si
ribellò alla dittatura che laveva oppresso e alla
potenza occupante che laveva travolto, unitariamente, con
vera e propria coesione nazionale
Le cose non sono andate
con tutta evidenza in questo modo, innanzitutto perché
non fu semplicemente una ribellione italiana: se ci limitiamo
a focalizzare i nostri occhi su questo aspetto, perdiamo tanti
degli aspetti più ricchi di quella ribellione. Fu italiana
certamente, ma non fu solamente italiana: riuscì a essere
a volte mi piace pensarlo anche se non mi mancano i dubbi
europea nella sua convergenza di tante identità
nazionali diverse, almeno in alcuni momenti. E bello pensare
ad unEuropa forte di quella collaborazione che affonda
nella Resistenza le proprie radici, anche se laspetto è
problematico e merita di essere approfondito.
La collaborazione ci fu naturalmente, fu una collaborazione straordinaria,
ma ci furono anche momenti di difficoltà, perché
abbattere le frontiere non è semplice nemmeno nel momento
della ribellione. Abbattere le frontiere non è mai semplice,
perché le frontiere lo sappiamo molto bene
esistono per dividere i territori, ma esistono anche dentro le
nostre teste. Esistevano naturalmente dentro le teste degli oppressori:
non cè dubbio su questo; ma esistevano molto probabilmente
anche dentro le teste degli oppressi, anche se è vero
che durante i mesi della Resistenza limpegno di quegli
oppressi consentì almeno ad alcuni di questi pregiudizi
di essere accantonati. Sicuramente alcuni di questi pregiudizi
vennero accantonati fra il 1942-1943, quando, alcuni antifascisti
italiani andarono a lezione di resistenza dagli antifascisti
sloveni.
Imparammo a resistere, armi alla mano, dagli antifascisti sloveni.
I primi incontri avvennero nel corso dellautunno del 1942,
periodo nel quale i partigiani sloveni iniziavano ad organizzare
alcune azioni per farsi vedere anche in questo territorio. I
colloqui che avrebbero dovuto impostare la collaborazione del
periodo successivo proseguirono nella primavera del 1943, e proprio
nella primavera del 1943 prese forma il primo nucleo partigiano
composto da antifascisti italiani. Il primo, ed è bene
ribadirlo, prese forma proprio perché poteva riferirsi
ad un modello funzionante, efficace ed organizzato come quello
rappresentato dalla resistenza slovena. Il distaccamento Garibaldi
anticipò tante altre esperienze dello stesso tipo che
si sarebbero moltiplicate dopo l8 settembre, qua e altrove
in Italia, ma quel che è certo è che qua quel distaccamento
si poté organizzare grazie ai collegamenti con la resistenza
slovena. Una resistenza, che come nel resto dei Balcani, si era
organizzata già dal 1941, perché nel 1941 il nostro
Paese aveva affiancato la Germania nelloccupazione di quella
penisola.
Vi propongo una cifra su quelloccupazione, in maniera tale
che sia chiaro ciò di cui parliamo. La Jugoslavia era
stata invasa, lItalia aveva proceduto con lannessione
dellintera provincia di Lubiana e di altri territori della
penisola balcanica (Dalmazia, parte della Grecia, Montenegro
):
in quei 29 mesi di occupazione ci rendemmo responsabili di 350
mila vittime! Gli sloveni per citare solo loro
vennero internati dalle autorità del nostro paese a decine
di migliaia: ecco perché già nel 1941 iniziò
la Resistenza in quei territori. Iniziò la Resistenza,
si organizzò, trovò il modo di radicarsi, trovò
il modo di consolidarsi, e fra il 1942-1943 vennero chiariti
in modo definitivo gli obiettivi di quella resistenza: alcuni
di quegli obiettivi riguardavano anche questi territori, tantè
che si aprì immediatamente, fra la fine del 1942 e gli
inizi del 1943, una disputa su chi avrebbe dovuto dirigere la
Resistenza da queste parti. Chi avrebbe dovuto dirigere le azioni
contro il nazifascismo nei territori delle Prealpi, del Collio,
del Carso? Questa fu una discussione che suscitò tensioni:
i rapporti fra i resistenti, in alcuni casi, furono particolarmente
tesi perché cerano idee diverse sulle prospettive.
Sulla base di quelle idee si discuteva: si dibatteva fra compagne
e compagni che condividevano una lotta ma che in alcuni casi
avevano idee diverse su quel che quella lotta avrebbe dovuto
produrre.
Tanti antifascisti italiani i comunisti innanzitutto
avevano riconosciuto da tempo come perfettamente legittimo limpegno
sloveno per il raggiungimento dellunità nazionale.
Da questo punto di vista i partiti comunisti già dalla
prima parte degli anni Trenta avevano concordato sulla legittimità
di obiettivi di questo genere: fu sulla base di questo riconoscimento
che poterono crearsi le condizioni per la collaborazione, collaborazione
che iniziò ad essere significativa nellautunno del
1943 e che fu piena fra la primavera e lestate del 1944.
Nellautunno del 1944, invece, alcune delle tensioni precedenti
riemersero: tensioni che avevano riflessi anche nelle Valli.
Le discussioni sul dopo, condizionate da aspirazioni naturalmente
e comprensibilmente diverse, logorarono in alcuni casi i rapporti
di collaborazione, senza fiaccare tuttavia la combattività
dei tanti resistenti che continuarono ad andare allattacco
nel corso di quei mesi, mesi complicatissimi.
Ritorniamo allesempio che ho citato in precedenza; la Beneska
Ceta nel corso di quei mesi attaccò sistematicamente le
linee ferroviarie, attaccò i presidi cosacchi, le colonne
di soldati tedeschi che si muovevano, attaccò anche con
unazione clamorosa la base militare nemica, la caserma
di San Pietro. Voglio ricordare questi episodi di attacco per
una ragione molto semplice: perché, i partigiani si concepirono
come protagonisti di una battaglia in cui si trattava di andare
allattacco! Non si pensarono semplicemente come vittime
di unoppressione feroce, ma si pensarono come coloro che
dovevano reagire a quelloppressione: andando allattacco.
Perché ribadisco questo aspetto? Perché anche in
tante celebrazioni di questi mesi ho sentito molti riferimenti
a tutte le vittime fatte dal nazifascismo e naturalmente sono
riferimenti che non possono che essere condivisi: sono riferimenti
certamente accorati, ma io metterei in guardia chiunque dal ricordare
quelle vicende insistendo solo su questa retorica vittimaria.
Non credo che abbia senso ricordare la Resistenza solo insistendo
sul fatto che i resistenti e non solo loro furono
vittime di un potere terribile: i resistenti non furono solamente
vittime. Seppero andare allattacco, e quando decisero di
attaccare i propri avversari commisero anche degli errori, ma
sono gli errori che commettono coloro che decidono di prendere
nelle proprie mani il proprio destino. Sono gli errori di coloro
che rifiutano la passività e che con slancio e generosità
scelgono lazione. Ecco, per questa ragione io sgombererei
le nostre celebrazioni da un certo tipo di retorica vittimistica:
quella retorica per intenderci voglio essere chiaro fino
in fondo che mette le autorità spesso nelle condizioni
di parlare con cordoglio delle vittime delle Fosse Ardeatine.
Ci mancherebbe che non dovessimo parlarne, ma perché non
si parla mai dellaudacia dei gappisti protagonisti dellazione
che mise i tedeschi in grave difficoltà a Roma in quelloccasione?
E più semplice parlare delle vittime: è un
po più complicato parlare di coloro che attaccano,
di coloro che si organizzano per attaccare, ma vale la pena di
farlo, perché coloro che trovarono la forza di farlo riuscirono,
grazie alle proprie azioni, a rendere difficilissima la vita
agli occupanti e anche a coloro che scelsero di collaborare con
gli occupanti. E la capacità che dimostrarono di rendere
la vita difficile a costoro fu decisiva.
Se, in questo paese, non si siamo fatti dettare la Costituzione
da coloro che hanno pure dato un contributo decisivo alla liberazione
di queste terre, è perché abbiamo saputo essere
protagonisti, almeno in parte, della liberazione di queste terre
coloro che non ci sono riusciti dopo il 1945 si sono fatti dettare
la Costituzione da altri: non è stato il nostro caso.
Abbiamo saputo rendere la vita difficile a coloro che hanno occupato
queste terre e a coloro che hanno collaborato con quanti hanno
occupato queste terre, e questa nostra capacità poi si
è tradotta in una capacità, almeno parziale, di
influenzare le scelte decisive riguardanti questo territorio
nel periodo successivo. Queste mi sembrano questioni importanti,
importanti perché è fondamentale ricordare naturalmente
il grande contributo degli Alleati per la liberazione del nostro
e degli altri Paesi, ma non ha senso farlo senza ricordare che
tante delle città nel Nord Italia, per esempio, non furono
liberate esclusivamente grazie allimpegno degli Alleati.
Insorsero infatti: Genova innanzitutto, poi Torino, Milano
città che seppero insorgere dimostrando le capacità
di una Resistenza che aveva saputo organizzarsi e rafforzarsi.
Anche le nostre città insorsero, e insorsero grazie al
contributo di coloro i quali le seppero raggiungere nei giorni
decisivi dai territori circostanti. Questa fu anche la vicenda
di Cividale: conoscete probabilmente meglio di me le dinamiche
degli ultimi giorni di aprile, ma alcune cose forse vale la pena
di dirle prima di chiudere questa riflessione. Non fu una liberazione
semplice quella di Cividale, così come non fu una liberazione
semplice quella di tanti territori di confine a cui facciamo
riferimento in occasione di queste cerimonie. Se ci fu una corsa
per liberare Trieste, ci fu una corsa anche per liberare Cividale:
una corsa per dimostrare chi aveva la capacità di farcela
prima e con più efficacia, ma a me non interessa in questo
momento sottolineare gli aspetti di competizione; mi interessa
invece insistere sugli aspetti di collaborazione che ci furono
fra i battaglioni italiani e i battaglioni sloveni: fra due modalità
di intendere e di concepire la Resistenza che seppero far convergere
le proprie energie contro gli avversari. Seppero farlo anche
a Cividale, e seppero farlo nelle cittadine circostanti il 28,
il 29 aprile... Seppero farlo nelle ore decisive del 1 maggio
a Cividale e seppero farlo prima che arrivassero le truppe britanniche,
prima che arrivassero le truppe americane e anche questo è
un segnale: un segnale importante di quel che i resistenti volevano
dimostrare nel corso di quelle ore terribili. Un segnale importantissimo
di cui noi dobbiamo essere orgogliosi in occasioni come questa.
Dobbiamo essere orgogliosi dellimpegno che ci misero tanti
dei giovani di questo territorio, un impegno importante che fu
costretto a fare i conti anche con fatti per certi aspetti sconcertanti:
a liberare Cividale ci furono in prima linea i giovani che avevano
combattuto per mesi in questi territori, ma si trovarono paradossalmente
a fianco coloro i quali, invece, per mesi avevano combattuto
contro di loro. Perché cè anche questo aspetto
sul quale riflettere: pensate un po lo sconcerto di tanti
partigiani che per mesi avevano dovuto fare i conti con la repressione
durissima scatenata contro di loro e che, a Cividale videro a
fianco a loro coloro che si erano resi responsabili di quella
repressione... Ecco, non sono mancate le contraddizioni in quella
fase e vale la pena di ritornare su quelle contraddizioni per
non confondere chi si è battuto a testa alta per mesi,
chi si è sacrificato a testa alta per mesi e chi magari
ha ritenuto di potersi mettere le stellette per qualche ora di
impegno, per qualche giorno di impegno...
Chiudo ribadendo alcuni aspetti che mi stanno particolarmente
a cuore, per ribadire limportanza delle scelte di questi
giovani, unimportanza che a volte mi sembra paradossalmente
anacronistica... Per quale motivo? Anacronistica perché
sembra che oggi sia quasi imbarazzante riflettere sulla determinazione
di quei giovani, sulla loro capacità di essere battaglieri,
sulla loro voglia di essere combattivi. Noto spesso questo imbarazzo,
che è un imbarazzo dal mio punto di vista assolutamente
fuori luogo. Anche se oggi può sembrarci strano, quei
giovani seppero con tutti i loro limiti prendere
il loro destino nelle proprie mani: fu questo il segnale fondamentale
che vollero dare e in un contesto come il nostro, in cui i ceti
popolari hanno spesso chinato la testa, hanno spesso ubbidito,
sono spesso rimasti sottomessi, quei mesi, quegli anni furono
straordinari. Vale la pena di dirlo nel 2015 proprio perché
sembra che la nostra epoca sia molto diversa da quella: un epoca
in cui sembrava che il futuro fosse a disposizione di coloro
i quali non avevano mai avuto a disposizione nulla. Mi riaffido
alla la riflessione di un libro di Daniele Giglioli Stato
di minorità che ho riletto in questi giorni preparando
questa conferenza, perché mi pare assolutamente efficace
la linea di riflessione proposta da questa pagina:
Mai come nel Novecento
quanto siamo
distanti da quel Novecento
troppo probabilmente!
Mai come nel Novecento le classi dirigenti si sono sentite
tanto minacciate nella loro legittimazione a essere tali. Che
tentino di esorcizzarlo con ogni mezzo è comprensibile.
Non si deve ripetere, non deve succedere mai più. Gli
si rimprovera al Novecento ciò che aveva
di meglio quel secolo: limperativo allazione, la
preferenza, anche emotiva, per il conflitto. Il Novecento è
stato il secolo del Partigiano, secondo la diagnosi tanto lucida
quanto angosciata di un teorico del Leviatano come Carl Schmitt.
E Partigiano è colui che porta inscritto fin nel nome
il suo essere di parte, orgogliosamente, per scelta e non per
costrizione.
Essere stati di parte per scelta e non per costrizione: questo
è il grande merito di questi giovani, questo è
il motivo per cui ha senso continuare a ricordarli, ha senso
continuare a fare di queste occasioni di ricordo occasioni per
riflettere; perché dovremmo, in qualche modo, trovare
la capacità di essere almeno in parte eredi degni di quella
tradizione. Grazie.
Pulfero, 13 dicembre 2015 |
Gabriele
Donato |